Il perturbante, nel bosco come nella stanza di analisi

“A Colono, presso Atene. Sullo sfondo, nel sole, parte della cinta fortificata di Atene, lontana; e case sparse nella campagna. Il poggio di Colono a sinistra, tutto rivestito d’ulivi, è fiancheggiato da una strada – quella di Tebe – che si stacca dal fondale assolato per allargarsi, verso il proscenio, in una radura tutta ombra; l’ombra religiosa ed inviolata del bosco sacro alle Eumènidi, folto d’ulivo, di viti, di lauri, di uccelli, limitato da rocce dirupate e da un declivio aspro e sassoso…Edipo, vecchio e col volto devastato dalle pieghe ch’egli stesso s’apprese nelle orbite vuote…Antigone, sua figlia…avanzano lentamente, l’uno al braccio dell’altra, verso la larga pietra ai margini del bosco” (Sofocle, Edipo a Colono, Scena inziale)

Edipo fugge nel bosco, accecatosi con la fibbia della cintura della madre/sposa Giocasta, portando sulla propria pelle il disagio della civiltà.

In questo caso il bosco viene visto come rifugio dalla città che punisce, scaccia e rimuove, il bosco dunque che ripara, che ristora, che trasforma, ma anche e contemporaneamente luogo sinistro, pauroso, perturbante, dello sconosciuto, dei mostri, degli animali, delle leggi della natura, delle passioni, degli accoppiamenti animaleschi. Luogo contemporaneamente sacro e spaventoso, dove si incontrano il simmetrico e l’asimmetrico, il tutto e il contrario di tutto.

Nel bosco ci stanno gli esuli, i fuggitivi, i ribelli, lo sconosciuto si fa familiare, quando non si riconosce più e non ci si riconosce nei luoghi familiari dove si è cresciuti.

La città vista dal bosco appare diversa, distante, piccola. Così come sarà sembrato il padre del Barone Rampante di Calvino, e la sua famiglia ossequiosa.

Nel bosco era possibile incontrare i Santuari delle divinità, inizia così il cammino di riparazione di Psyche. Nel bosco abitavano Satiri, Sileni e Centauri; le Ninfe, custodi degli alberi, fiumi e laghi; divinità ancestrali: a Demetra venivano dedicate le primizie del sottobosco. Dioniso, il dio straniero, veniva rappresentato rivestito di pellami aspetti selvaggi. Pan aveva i piedi e la coda di capra, due piccole corna sulla fronte e si divertiva a correre nei boschi a suonare la zampogna o urlando con mille misteriose voci che provocavano terrore e panico ai viandanti.

Nel bosco, attraverso rituali di iniziazione, i giovani delle tribù primitive diventavano adulti tornando in città dopo aver imparato a cavarsela da soli, in alcuni casi dopo aver ucciso un animale selvatico, portato come trofeo. Dal mito ricordiamo le fatiche di Eracle, in particolare la cattura del leone e il mito di Atalanta, raccolta e nutrita da un Orsa, e della corsa da vincere per averla in sposa. Ippomene sfida la morte e vince la gara con Atalanta. Il suo trionfo fa pensare al superamento di una prova iniziatica. Come le altre metamorfosi che Ovidio ambienta nei boschi.

Nel bosco i monaci dell’antichità si allontanarono dalle città decadenti e pericolose per dare vita a nuove forme di socialità: abbazie, cenobi, certose.

Nel bosco è possibile sperimentare la solitudine della perdita dei riferimenti familiari.

Nel bosco è possibile perdersi per ritrovarsi, sperimentando un rapporto diverso con lo spazio, il tempo e la luce. Il crepuscolo e la penombra nel bosco apre a nuove prospettive, poesia e mitopoiesi: “nel mezzo del cammin di nostra vita, mi ritrovai per una selva oscura” (D. Alighieri)

La città caccia via il perturbante, perché ne ha paura, ma ne ha paura perché porta con sé il familiare, ciò che la città stessa vuole tenere celato, rimosso (l’uccisione del padre e l’incesto), mentre Edipo con la sua presenza lo rende visibile, presente, il suo stesso accecamento lo rende visibile e dunque difficile da rimuovere, la città non vuole pensare, ma contenere ed espellere con le sue leggi, mentre nel bosco attraverso la perdita di punti di riferimento, senza coordinate i pensieri selvaggi possono essere manifestati e condurre verso un luogo nuovo che ne permetta la pensabilità: la stanza d’analisi.

L’analista, come scrive Bion “dovrebbe sentire di camminare al buio di notte in una foresta: il terrore senza nome, come camminare di notte, soli, sapere che un mostro cammina dietro, e continuare a camminare senza voltarsi

Mentre etimologicamente bosco rimanda alla parola pasto, fonte di nutrimento: frutti, pascoli e cacciagione, il termine foresta, dal latino foris, ci porta “al di fuori” dello spazio abitato, dove il perturbante si fa più fitto.

Le oscillazioni emotive della stanza d’analisi, mettono in contatto analista e analizzando con qualcosa di catastrofico “provare paura che rappresenta un requisito necessario per la riuscita della terapia”(G. Bleandonu "Wilfred R. Bion: la vita e l'opera (1897-1979)", Borla, Roma, 1993).

"... l'analisi è una di quelle rare situazioni in cui degli esseri umani si possono trovare impegnati in una occupazione paurosa senza neanche uscire di casa."  (Bion W. R. Il Cambiamento Catastrofico, Loescher Editore, Torino, 1981).

La teoria ci propone l’assetto mentale di risuonare con il paziente, senza memoria, desiderio, comprensione, sviluppando l’attenzione fluttuante e la capacità negativa, in modo da vedere al buio, come gli animali notturni del bosco: gufi, volpi, pipistrelli, ghiri, tassi, ricci, porcospini. Tra questi la civetta è assurta a simbolo di Atena, dea della sapienza, per il proprio sguardo acuto nel buio. Qualità cercate da altri personaggi ciechi: Edipo, Omero e Tiresia. Anche l’analista si acceca per vedere, come suggerisce Freud nella lettera a Lou Andreas-Salomè del 25 maggio 1916: “So di essermi artificialmente accecato mentre lavoro allo scopo di concentrare tutta la luce sull’unico passaggio buio”.

Parthenope Bion suggerisce che “l’esperienza di affrontare questa tenebra interiore e caos, per dirla molto brevemente, è esattamente ciò che Bion intende con l’idea di contemplazione della posizione schizo-paranoide, senza memoria, desiderio di comprensione immediata”. (Bion Talamo 1996)

Mentre Bion nel Seminario di San Paolo (1973) suggeriva di abbassare la luce per illuminare i problemi oscuri: “Al posto di cercare una luce viva e intelligente per illuminare i problemi oscuri, suggerisco di abbassare la luce; un raggio penetrante fatto di oscurità [...] diretto sull'oggetto della nostra curiosità [...] assorbirebbe la luce già esistente lasciando la zona di osservazione sprovvista della luce che possedeva. In questo spazio prende corpo un elemento di conoscenza non saturato da significati. Qui è il luogo dell'infinito e del «porsi all'unisono con O» dell'atto creativo”.

Nel bosco della stanza d’analisi, si deve poter tollerare la paura dell'inconoscibile avendo sospeso memoria, desiderio e conoscenza, permettendo così l'esercizio dell'arte dell'intuizione, dove l'intuizione è l'unico strumento che lo psicoanalista ha per immergersi nello spazio mentale dell'analizzando in assenza di vista, di udito, di olfatto, di tatto e di gusto; l'unica possibile per superare l'ostacolo della sensorialità e risuonare in O: "Ogni seduta a cui lo psicoanalista prende parte non deve avere nessuna storia e nessun futuro... l'unica cosa importante in ogni seduta è l'ignoto. Non si deve permettere a niente di distrarre dall'intuizione di esso... In ogni seduta ha luogo un'evoluzione. Dal buio e dall'informe evolve qualcosa." (Bion W. R. Cogitations, Armando editore, Roma, 1996).

Nella penombra della stanza d’analisi, il terapeuta è perturbato dall’ignoto. Per affrontarlo, Bion propone il linguaggio dell'Effettività. Prendendo in prestito un’espressione del poeta J. Keats, Bion ci propone una caratteristica fondamentale dell'analista: "Mi riferisco alla Capacità Negativa, cioè quella capacità che un uomo possiede se sa perseverare nelle incertezze, attraverso i misteri e i dubbi, senza lasciarsi andare ad una agitata ricerca dei fatti e ragioni". (Bion W. R.  Attenzione e Interpretazione, Armando Editore, Roma, 1973)

Nel bosco dei pensieri selvaggi, l’analista aspetta un fatto scelto, si apposta in attesa di una idea nuova: l’atto di fede che ad un dato momento accadrà un evento utile alla terapia. Un atteggiamento tipico della personalità del mistico e del genio, metafore del pensiero scientifico. L’atto di fede così inteso "sembra essere alla base del fattore intuitivo che consente di tollerare i percorsi di tempo vuoto che precedono l'insight." Gaburri E. e Ferro A. in Trattato di Psicoanalisi a cura di Semi A., Raffaello Cortina Editore, Milano, 1990).

Per fare ciò è necessario imparare a tollerare la solitudine, sospendendo il giudizio, per andare incontro a qualcosa di inedito: “lo psicoanalista dovrebbe ripromettersi di raggiungere uno stato mentale tale da sentire, ad ogni seduta, di non aver mai visto prima quel imparare te. Se sente di averlo già visto, sta trattando il paziente sbagliato.” (Bion W. R. Cogitations. Armando Editore, Roma 1996).

Un’operazione di svuotamento di sé, accompagnata dal senso di solitudine dell’analista che si separa da aspettative, legami, oggetti interni ed esterni “per prepararsi ad accogliere l’esistenza di un altro essere umano” (Marpurgo, E., La solitudine –Forme di un sentimento, 1995).

Presentato ai Seminari Multipli di Catania nell’anno 2019/sezione gruppi.


Dr. S. Cattano, Dr.ssa P.P. Scandura


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Ultima modifica: 23/05/2016